Aprile 2023 – Dødheimsgard

 

C’era una volta l’Avantgarde: il superare ogni possibile confine nella sperimentazione che porta l’essenza conoscitiva di svariati generi vandalizzati a confluire in un’unica, difficile manifestazione di supremazia assoluta sull’intrattenimento e sul calcolo, su ogni previsione di ricezione e ogni incasellamento utile alla vendita o all’acclamazione immediata nell’era della tirannia streaming. C’erano una volta “666 International”, “Min Tid Skal Komme”, “The Linear Scaffold” e “Written In Waters”; c’è oggi e non da meno lo strabiliante “Black Medium Current” (Peaceville Records), nuovo album dei soliti sospetti Dødheimsgard che al traguardo del sesto full-length in quasi trent’anni spaccati di attività non smettono di essere in realtà i più grandi degli insoliti, nonché unici persino nella loro stoffa di artisti regalmente esistenzialisti che sembra sempre monumentalmente posseduta dallo spirito dell’arte con iniziale capitale, se davvero ne esiste una. Toccata dal divino, se davvero ne esiste uno.
Chi li pedina nell’articolo che vi state godendo, tuttavia, non è meno ambizioso nemmeno in fatto di timing: il meglio di aprile è rappresentato anche dal collettivo islandese Sól Án Varma, pure loro con l’omonimo debutto autori di quasi settanta minuti filati di splendore e terrore in fatto di materia Black Metal. Se poi non stiamo a considerare quanto, chi ha conquistato l’interezza numerica dello staff sono gli Austere con il loro come-back (in mancanza di un termine più azzeccato, benché anche questo non lo sia proprio del tutto) “Corrosion Of Hearts”; siccome però il quarto figlio del 2023 è stato un mese davvero magico -e se non ve ne siete accorti in corso d’opera lo farete ora-, le sue potenzialità non si esauriscono nemmeno con il quarto in lista, ovvero “The Ravening” degli ancora una volta impegnativi e plurimamente nominati Argenthorns, e troverete dunque in fondo allo scritto che segue persino un paio di altri consigli che non dovreste perdere. Dischi, per intenderci, che a seconda della personale inclinazione stilistica avrebbero potuto tranquillamente figurare assieme al gustosissimo poker odiernamente preparato.
Dunque questa volta si sa come si comincia ma non con chi si finisce: e pare anche azzeccato, visto come il potere della sorpresa, del pericoloso smarrimento e del mistero sfuggente nelle sette note è una delle massime prerogative con cui i quattro autentici sperimentalisti norvegesi ci accolgono nel loro mondo.

 

 

Quello che si apre come il più malinconico, il più intimistico e per molti versi personale (in termini di individualità compositiva) album dei Dødheimsgard di sempre si rivela presto o tardi, ma sempre e solo in decisiva collaborazione con l’ascoltatore, quale ennesima prova di forza e sperimentazione del gruppo norvegese: pezzi come “Interstellar Nexus” e “Det Tomme Kalde Mørke” sono strabiliantemente tra le cose migliori mai scritte e rilasciate da una band che non conosce oggi come ieri alcun confine creativo benché mantenga perennemente un inconfondibile gusto tutto suo nella raffinatissima musica che crea, riuscendo a suonare immediatamente quali i creatori di “A Umbra Omega” pur prendendone fortemente le distanze in approccio: stralunato, oscuro, liberatorio e catartico, avvolgente e curativo ma seriamente abissale e perduto al contempo. Un capolavoro di quelli istantanei, in cui follia e lucidità dialogano nella stessa e in più lingue, direbbe forse a ragion veduta qualcuno – quel su cui però si può facilmente convenire tutti è che -al minimo- “Black Medium Current” sia, al di là di qualunque gradimento, uno dei dischi più profondi pubblicati negli ultimi anni.”

Se l’impatto caotico di “A Umbra Omega” tagliava il fiato nei suoi intrichi strabordanti, come architetti dell’oscuro la compagine guidata da Vicotnik distrugge e crea in una svolta che è prima ancora intima piuttosto che strutturale; inoculando in più ampi movimenti una scintilla di dolore e smarrimento e tracciando rotte fra i recessi inesplorati dell’inconscio, l’incorrotto cuore Black Metal viene frammentato nelle sue linee spettrali con un fenomenale approccio organico e psichedelico. La vera arte diabolica dei Dødheimsgard innestata fra labirintici corridoi d’ossidiana, astratti scenari elettrostatici e le stanze ricorsive degli anfratti cerebrali non smette quindi di mutare e presumibilmente mai lo farà: lo stupore sincero che qualsiasi fervido e ricettivo ascoltatore prova dal 1998 si rinnova infatti ad ogni uscita, sempre in modo nuovo e inatteso, trovando in “Black Medium Current” una magistrale opera d’arte pregna di dettagli e idee da sviscerare, comprendere, assorbire e vivere.”

Per quanto abbia sempre apprezzato l’arte dei Dødheimsgard mai mi sarei aspettato un lavoro come “Black Medium Current”, disco che estranea il quartetto norvegese da qualsiasi discorso relativo a Metal estremo, avanguardia o sperimentazione, e molto semplicemente (per così dire…) posiziona la band in un territorio al di sopra di tutti e tutto. Chiaramente il Black Metal resta come base guida per l’intero progetto, ma si tratta veramente di un semplice punto di partenza che consente ad una miriade di contaminazioni musicali d’intercambiarsi l’una con l’altra minuto dopo minuto. L’utilizzo d’influenze di natura Progressive ed elettroniche settantiane, ad esempio, si sposa alla perfezione con le sfaccettature stilistiche più cupe, epiche ed estreme che da sempre contraddistinguono i Dødheimsgard. Ma a tratti è anche difficile descrivere quello che si sta ascoltando perché risulta oggettivamente non etichettabile: per questo motivo l’unica cosa da fare è godersi questi settanta minuti di musica e restare affascinati da una tra le migliori rappresentazioni di sempre del Black Metal e della sua veramente infinita versatilità.”

I Sól Án Varma, nati Vánagandr come esibizione one-off commissionata ai peggio ceffi del panorama islandese dal rinomato Roadburn nel quasi lontano 2018, che dimostrano come talvolta anche l’impossibile sia possibile. Rendere una sola visione le profonde differenze caratteriali ed espositive di Misþyrming, Svartidauði, Drottinn, Árstíðir Lífsins e Wormlust, solo per nominare i riferimenti più immediati del disco, sembrerebbe infattibile… Eppure…

“Sól Án Varma” è un lungo pezzo collaborativo, un disco, un progetto in sé, un’esperienza collettiva che solo dalla famigerata terra di fuoco e ghiaccio -in tutta la sua distruttiva contraddizione uno dei terreni più fertili per la musica oscura contemporanea- poteva provenire; e che solo da fini e selezionate menti che abbiamo ormai imparato a conoscere altrove poteva essere realizzata. Cionondimeno, il risultato è tanto artistico quanto una sorpresa enorme persino per determinati, altissimi standard. Anche volendosi esimere dal listone di nomi in necessaria comparazione: ultraterreno ed arcaicamente esoterico come gli Árstíðir Lífsins, gretto, spudorato ed inventivo come i Misþyrming, abissale come gli Svartidauði e i Núll, provocante come i Drottinn ed inquietante come Wormlust e Martröð. Eppure epico e sontuoso più di tutti loro, tragico come raramente ascoltato. Per chiunque abbia imparato ad amare l’Íslenskur Svartmetall, ma anche per tutti gli altri: semplicemente imperdibile.”

La doppia lettura di un’uscita tanto ambiziosa quanto viscerale come “Sól Án Varma” rende l’idea della fenomenale coordinazione di menti pensanti che si cela dietro al progetto: terremotante e drammatica come esperienza, che delloriginaria dimensione live mantiene il dinamismo, il respiro, il terrore catastrofico e quel miasmatico storytelling fatto di vibrazioni, esplosioni e scosse telluriche; e al contempo opera titanica dal linguaggio nebuloso, ostica da abbracciare nella sua interezza in pochi ascolti ma dotata di quelle tanto caratteristiche e abissali trame melodiche sottopelle che poco per volta emergono collegando e donando struttura ai movimenti avvolgenti e fumosi. Gigantesco simbionte ancora più che collettivo, i Sól Án Varma partono da una concezione di Metal estremo solida e unitaria che affonda nella fanghiglia comune di un’Islanda da anni corrotta e coesa, ma vanno ben oltre la somma delle singolarità dei componenti, sfruttando le caratteristiche e il talento delle rispettive formazioni in modo orchestrale, riuscendo così a catturare l’istantanea vorticante di un universo in collasso.”

Dalla crème de la crème della scena estrema islandese, i Sól Án Varma non potevano effettivamente che essere un progetto interessante e musicalmente ben congegnato. Il prodotto finale si destreggia tra soluzioni in non sospette chiavi fortemente Doom affiancate da trame e sottotrame melodiche che fungono da scheletro per l’intero disco, sia che si tratti di un passaggio d’accompagnamento nei momenti più transitori e riflessivi, sia che si tratti di dettare l’atmosfera attraverso un riffing dai connotati maggiormente distonici o dai toni più aggressivi e storti. Notevole è inoltre il modo in cui elementi epici provenienti dal mondo Árstíðir Lífsins, in particolare, si sposino con il sound asfissiante dei Misþyrming -su tutti- senza però ad andare a creare un macchinoso mash-up stilistico, ma piuttosto riuscendo a creare un sound unico e seriamente originale che non può non far piacere a qualsiasi appassionato di musica estrema.”

Quel che gli Austere hanno coccolato e tenuto in caldo per noi, in gestazione dal 2009 del riverito “To Lay Like Old Ashes”: “Corrosion Of Hearts”, terzo full del duo australiano e loro debutto per la prestigiosa Prophecy Productions, è quel che si definisce un ritorno che non ci si aspetta – in tutti i sensi, qualitativo in primis. Un disco serale che sembra congelato nel tempo e congelare il tempo, curare ferite aprendone altre. Non per caso ha colpito a segno con l’interezza della redazione…

Perché gli Austere, oggi più che mai, con il loro Black Metal atmosferico e ed estremamente voluminoso, esteticamente scarno eppure così pieno di lancinanti frequenze emotive, incarnano e incanalano davvero in musica tutta la sublime disperazione dell’esserci pur non essendoci – l’impossibilità di esserci nonostante innegabilmente si esista. Come un cuore che si corrode in una nuvola di grigi uccelli migratori già puntanti la direzione opposta, la tensione verso quel non luogo nella cui direzione siamo tutti con paura voltati. Là, laddove la vista non arriva più. Là, dove lo sguardo non può posarsi e luogo in cui dunque i sensi perdono la loro supremazia nella sfera sensibile di qualunque conoscenza umana. Là: verso ed oltre il grande abbandono, verso il più immenso oblio e sui passi del profondo, sconosciuto ed abissale ignoto.”

Può sembrare scontato per certi versi, ma ancora prima delle parole, degli esperimenti, dei tentativi e del tempo che passa indefesso e beffardo mutando la percezione di un genere o dell’altro, nella musica quel dardo acuminato che sfreccia incurante del vento per piantarsi nella corteccia emozionale di chi la ascolta sarà sempre scagliato in prima battuta dal modo in cui le note vengono affiancate l’una con l’altra. Così gli Austere riprendono, non certo dimentichi di ciò che Yatras ha sviluppato con i Germ negli anni appena successivi a “To Lay Like Old Ashes”, un discorso che molto probabilmente anche loro pensavano di aver interrotto per sempre e lo fanno con un’urgenza espressiva strabordante. Non priva di trovate inaspettate e strutture illuminanti, “Corrosion Of Hearts” è una ventata palpabile e sferzante che esprime tutta la classe del duo, profilando quello che sembrava un inaspettato e pericoloso come-back come una delle uscite più ispirate che il Black Metal dalle tinte atmosferiche abbia partorito negli ultimi anni.”

Serviva il ritorno inaspettato degli Austere per riportare una così alta qualità in una pubblicazione facilmente etichettabile ed etichettata come Depressive Black Metal. Quattordici anni dopo “To Lay Like Old Ashes” il duo australiano fa ancora scuola nel filone e impartisce una chiara lezione di come creare atmosfera e di come riempire di emotività e pathos di rarefatta bellezza le proprie composizioni attraverso trame tanto ariose quanto malinconiche. Anche i momenti principalmente comandati dalla strumentazione (come ad esempio le chiusure dei vari, lunghi brani) restano interessanti e non vanno mai a perdere di mordente, segno che il duo è in grado di creare musica straziante e straniante con enorme cognizione di causa e veridicità, anche se (lo si ammette, nel bene come nel male – se di male si può davvero parlare) questo non lo scopriamo di certo soltanto oggi…”

“Le punte di sincera catarsi emotiva raggiunte lo scorso dicembre dai compagni di mille funerali Woods Of Desolation non sembrano essere il punto focale di quanto invece espresso dagli Austere nell’anno Domini 2023, a quasi tre lustri di primavere dal magistrale send-off che li aveva piazzati tra i maggiori esponenti del mal di vivere dilagante nel Nuovo Galles del Sud. In mezzo ci sono stati del resto gli stessi Germ ed Autumn’s Dawn, ergo anziché rincorrere questi ed altri progetti votati alla melodia come elemento principe “Corrosion Of Hearts” galleggia in una dimensione astratta molto più vicina al Depressive comunemente inteso, dove è il tutt’uno di chitarra, batteria e quasi impercettibili tastiere a spingere in avanti le composizioni con piglio quasi sinfonico. Per quanto non manchino linee collettive memorabili in grado di acchiappare un po’ tutti gli estimatori del genere, le mire di Sorrow e Desolate vanno evidentemente molto oltre e si concretizzano nella tensione compositiva encomiabile lungo tutto il minutaggio, privo di solismi ed isolati fraseggi toccanti, forse, ma al contrario pensato per arrivare poco a poco – abbandonandoci poi al nostro tormento solo allo spegnersi della magnetica conclusione.”

Ultima davvero non per importanza, quella orgogliosa bomba di Symphonic Black Metal stravagante, barocco, tronfio ed eccentrico ma sempre carichissimo di gusto, che risponde all’operato dei finlandesi Argenthorns nel loro primo tomo: “The Ravening”, fuori in punta di stivali per Avantgarde Music. Perché che un disco simile resti inascoltato come una uscita mediocre delle troppe in giro è un vero crimine, ed il sottoscritto e Kirves sono pronti a dirvi come mai:

S’è vero che anche “The Ravening”, così come un presumibile “Tyrannemord”, un “Aamongandr” e persino un “What Once Was…”, quanto e più di molti altri di quei grandi lavori che negli ultimi anni si sono felicemente inseriti nell’alveo di una vera e propria reinassance di Black Metal sinfonico (vedi: “Galdrum” e “Tales Of Othertime”), è un innegabile figlio di un certo “Totschläger”, il gusto speciale che un simile debutto conserva nell’andare non a seguire bensì a dialogare e contribuire, coadiuvare le possibilità esplorate da tutti questi dischi che paiono esplorare i reami meno battuti di un discorso interrotto sul più bello nello shift millenario, è quello di un vagabondo che viaggia in terre che ospitano un discorso comune: una storia in più capitoli da leggersi scritta da più e più autori, con un fine più alto che non sia arricchire di gioielli discografie, bensì tutti insieme anche se ognuno rigorosamente per conto suo e in gara con sé stesso –“The Ravening” in ciò capofila- per raggiungere e narrare a proprio modo la visione di quelle rovine illuminate dalla luce verde di due spicchi di luna che, all’unisono come risplendono sopra quelle rocce cariche di mistero, sono di un mondo splendidamente altro e rimasto orfano di cantori che sono oggi tornati più forti e agguerriti che mai.”

Il corredo cromatico ed estetico con cui gli Argenthorns si presentano al mondo manifesta con fermezza la volontà di Juuso Peltola di andare oltre quello stile finnico che, per quanto geograficamente caratterizzante, da qualche anno non riesce a non suonare fin troppo stantio e privo di acuti; così il gelo austero e troneggiante degli stessi Warmoon Lord viene sbalzato da un maestoso e volutamente sopra le righe pandemonio di suoni, pad e rasoiate che pesca a piene mani dalla tradizione sinfonica europea nella sua interezza. All’epicità dei Bal-Sagoth e alle spirali vorticose di Limbonic Art e Tartaros, “The Ravening” accosta delle corde mortifere che preservano l’impatto frontale di composizioni svolazzanti e cangianti, dal forte impatto visivo e delle tastiere spettrali che rimbalzano fra gli scenari orrorifici e maledetti di un debutto senza alcun tipo di compromesso.”

Come promesso, in chiusura di questo recap di mese arricchito al plutonio abbiamo svariati altri consigli da dispensare. Primo su tutti, come preannunciato, un disco che in una pressoché qualunque altra mensilità sarebbe arrivato davvero in alto in fatto di gradimento: “Det Förtegna Förflutna” degli svedesi Blodtår, su queste pagine seguiti fin dal bell’EP di presentazione omonimo nel 2021, sempre usciti per Nordvis con un album dove quel Black Metal folkloristicamente scandinavo, con quelle melodie nordiche, dal sapore tutto oscuro e nondimeno popolare che per troppi versi sono rimaste appannaggio dei vari “Høstmørke” e “Nordavind” a metà degli anni ’90, torna prorompente come aspetto più gustoso di una proposta altrimenti anche molto più selvaggia e spietata. L’interessante debutto degli esploratori polari Antrisch, poi, se siete appassionati dell’ormai tipico suono tedesco che negli ultimi anni in particolare ha fatto qualitativamente faville, è qualcosa da non perdere – perché “Expedition II: Die Passage” (autoprodotto dalla band) coniuga quelle sonorità con un sentore di mistero raramente trovato su simili coordinate di stile. Infine, si propone una chance anche all’interessante mini-album dei friulani Unviâr, “Faliscjis”, che potrete anche ascoltare presentato dal vivo giusto dopodomani, in apertura dell’ATMF Fest (con Deadly Carnage e Blaze Of Sorrow, non tacendo delle rarissime esibizioni di Prison Of Mirrors e Nova programmate per il giorno seguente), in caso siate come alcuni di noi tra i fortunati che vi prenderanno parte.
Se poi, come fatto altre volte, possiamo permetterci da ultimo persino un consiglietto al di fuori delle nostre usuali coordinate… I Grave Pleasures di “Plagueboys” sembrano davvero un modo adatto per congedarci e dovreste del resto sapere il perché. Quantomeno, se sapete chi ha cantato su di un certo “Supervillain Outcast”, o sui primi due eccezionali dischi dei Code, ovverosia “Nouveau Gloaming” e “Resplendent Grotesque”

 

Matteo “Theo” Damiani

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